Ricordate il film Minority Report ? Era il 2002 e già l’estro ed il genio di Steven Spielberg avevano immaginato un mondo, per l’esattezza la Washington del 2054, in cui tutto è connesso alla rete, tutto è informatizzato ed automatizzato.
Senza correre così avanti nel tempo, torniamo ai giorni nostri, il 2015, e ad un fenomeno che si sta velatamente diffondendo. Mai sentito parlare di IoT? O di RFID? Non stiamo parlando di concetti e termini rivolti solo agli addetti del settore, ma di qualcosa che sarà alla portata e a disposizione di tutti nei campi più disparati, da quello lavorativo, a quello domestico fino all’ambiente metropolitano.
Ma vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta.
L’acronimo IoT, dall’inglese Internet of Things ( INTERNET DELLE COSE ), risale al 1999 ed indica l’estensione e l’applicazione della rete Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi. Facciamo degli esempi concreti. Il vostro latte, dal vostro frigo di casa, vi avvisa con un semplice messaggio sul vostro smartphone che sta per scadere oppure che sta per finire; la vostra sveglia decide di suonare in anticipo perché ha rilevato che oggi c’è parecchio traffico sulla strada che abitualmente percorrete per recarvi al lavoro; o ancora le piante vi indicano quando è il momento di annaffiarle; la scatola delle medicine vi ricorda che alla tal ora dovete prendere la pastiglia quotidiana.
No, non stiamo parlando di fantascienza ma di applicazioni che nel giro di pochi anni potrebbero diventare di uso comune. Ma come funzionano? Tutto sta in una sorta di etichette, simili a dei codici a barre, con all’interno un microchip, che vengono applicate agli oggetti e ai luoghi. Tali etichette, che non sono altro che dei sistemi di identificazione a radio frequenza ( RFID ) o codici QR, trasmettono ed immettono informazioni in rete o direttamente a dispositivi mobili come i nostri cellulari, garantendo così una trasposizione alquanto dettagliata del mondo reale nel mondo virtuale.
Se pensiamo che tutto ciò potrebbe riguardare un futuro a noi lontano, ci sbagliamo. Molti dispositivi, molte applicazioni che rientrano nel concetto più ampio di IoT sono già a nostra disposizione. Pensiamo infatti alla domotica applicata alle abitazioni: in remoto, tramite il nostro telefono, possiamo già “comandare” la nostra casa e far sì, per esempio, che si abbassino le tapparelle o che il forno inizi a scaldarsi per cucinare la nostra cena. Entro il 2015, tutte le auto prodotte in Europa dovranno montare a bordo un modulo sim abilitato alla eCall, la chiamata di emergenza automatica. Non solo. Già nel 2018 sarà possibile applicare sotto la pelle un microchip a rilascio graduale di ormoni che andrà a sostituire la vecchia pillola anticoncezionale. Nel caso poi si decidesse di provare ad avere un bambino, la donna, in wireless, non dovrà fare altro disattivare il dispositivo, un semplice “switch off”, e tentare nella buona sorte.
L’Italia, fortunatamente, non sembra in questo caso vestire la maglia nera a livello europeo e si sta dimostrando in questi anni un paese molto sensibile e molto coinvolto dal progetto IoT, in particolare in quelle branche che riguardano la domotica applicata al risparmio dell’energia domestica, l’informazione in tempo reale sul traffico e la sicurezza e la localizzazione stradale. A fine 2013, in Italia, stando ai dati pubblicati dall’Osservatorio IoT del Politecnico di Milano, ammontano a 6 milioni gli oggetti interconnessi tra loro tramite rete cellulare (in aumento del 20% rispetto all’anno precedente) con un giro di affari pari a 900 milioni di euro.
Nel mondo, nel 2020 si prevedono 100 miliardi di oggetti connessi e proprio queste stime aprono già da oggi spunti di riflessione sulle difficoltà che l’avventura dell’ IoT andrà ad affrontare. Ed il primo problema è proprio quello della capacità di banda. Affinchè infatti le applicazioni IoT possano funzionare correttamente ed efficientemente necessitano di reti capienti, veloci e sicure vista la mole ma anche la tipologia di informazioni strettamente confidenziali che vi viaggeranno. Terreno sul quale purtroppo l’Italia non pare brillare al momento, mentre paesi come gli Stati Uniti ed il Giappone possiedono già sistemi di protezione molto avanzati. Altro scoglio riguarderà i protocolli di comunicazione. Oggigiorno esistono standard, formati, frequenze di trasmissione dati molto diversi tra loro e si prevede che nel futuro, con il loro fisiologico aumento e sviluppo, si potranno verificare situazioni nella quali i diversi dispositivi non saranno in grado di comunicare tra loro. Per fare questo, bisognerebbe disporre di un unico standard riconosciuto a livello mondiale. Infine, ed arriviamo all’intoppo meno preoccupante, l’alfabetizzazione informatica la quale, viste anche le nuove generazioni che mostrano una stretta confidenzialità con le nuove tecnologie, dovrebbe essere ampiamente risolta. Almeno si spera nel 2020.
Il team ITS